IL PARTIGIANO JOHNNY

il

di BEPPE FENOGLIO (1922-1963), ediz. Einaudi 1968

Classificazione: 4.5 su 5.

Si può chiamare “romanzo” un’opera come questa, scritta da chi partecipò, talora indirettamente, spesso direttamente ai fatti narrati ? Giacché, sì, l’8 settembre del ‘43 Fenoglio seppe da che parte voleva stare e così, quelle Langhe che in modo estremamente evidente conosceva molto bene ed amava con passione, cominciò a percorrerle su e giù o per sfuggire ai fascisti della Repubblica di Salò o per cercarli, per lo più con al massimo un paio di altri Resistenti, e godendone finanche la durezza invernale pur nella solitudine e il freddo dei lunghi mesi che prelusero alla “primavera di bellezza” della liberazione.

LA STORIA DI QUEST’OPERA E LA LINGUA. Nel ‘59 Fenoglio pubblica col titolo “Primavera di bellezza” una parte (circa un terzo) di un’opera colossale dedicata alla Resistenza nelle Langhe, sua terra natia essendo egli nato ad Alba, ma nel 1968, pochi anni dopo la sua morte precoce, Einaudi pubblica – e bisogna rendergliene merito – i trentasei capitoli che l’autore aveva espunto, intitolando questo libro “Il partigiano Johnny”. Fenoglio, insomma, non aveva completato questi capitoli e forse, se l’avesse fatto, avrebbe modificato certe scelte espressive e – dico io – reso la lingua più omogenea. Mi riferisco in particolare al fatto che di queste circa trecentocinquanta pagine molte contengono numerosissimi anglicismi (singole parole, sintagmi e frasi), numerose invenzioni linguistiche ed alcune parole francesi, mentre in molte altre pagine – soprattutto le ultime cento – la lingua è più “normale”, simile a quella delle altre sue opere, e richiede una minore competenza linguistica da parte del lettore. Io, per esempio, ho potuto capire i gallicismi nonché riconoscere e capire le invenzioni linguistiche fatte dall’autore a partire da parole italiane o dialettali e talora francesi, ma ho capito molto parzialmente gli anglicismi e le invenzioni linguistiche basate sull’inglese. Una lingua, dunque, quella del “Partigiano”, non facile, però personalmente da una parte preferisco i libri che per così dire trattengono la mia attenzione, piuttosto che quelli su cui l’occhio e il cervello corrono veloci parola dopo parola, pagina dopo pagina, e poi “Il partigiano Johnny” ha il merito di farci conoscere da vicino una parte di storia italiana che già si è troppo allontanata perché se ne apprezzi il valore.

Scrive Lorenzo Mondo nella prefazione dell’edizione Einaudi del 1968:

Se il romanzo rappresenta una ‘summula’ della guerriglia partigiana sulle Langhe per il minuzioso tracciato geografico, per la varietà delle vicende e dei casi, per l’indiscutibile tensione autobiografica (sono storie vissute dal ‘ribelle’ Fenoglio, o sentite raccontare nei bivacchi e nei pagliai, rimbalzate di cresta in cresta come un’esaltante epopea comunitaria), la figura di Johnny vi campeggia come un’individualità che supera lo sfondo storico da cui prende vita. Quest’uomo costretto a una fuga senza fine per colline, macchioni, ritani, impegnato soprattutto a combattere contro se stesso – la stanchezza e la solitudine, la paura e la tenerezza – , a conquistare giorno per giorno, dentro di sé, le ragioni della sua rivolta ideale, sembra prefigurare (…) i più puri ed attuali eroi del dissenso”.

UN PAIO DI OSSERVAZIONI .

1. Non bisogna aspettarsi un’opera in cui siano “trattati” tutti gli aspetti della Resistenza perché Johnny non sa, di quel che accade anche a non grande distanza da lui, molto più di quanto Fabrizio del Dongo, il giovanissimo protagonista de “La Certosa di Parma” di Stendhal, sapesse della battaglia di Waterloo nel suo complesso, benché vi partecipasse. Non solo perché pochi, e di nascosto, potevano ascoltare Radio Londra, ma soprattutto perché le formazioni partigiane erano formate per lo più da volontari, tra cui molti civili senza armi e non ex-soldati dell’esercito regio, e per lo più giovani e giovanissimi, senza obbligo – se non morale e solo di fronte a se stessi – di battersi in condizioni così dure contro un nemico molto più militarizzato e peraltro coadiuvato dai tedeschi.

2. Penso che difficilmente ci si possa render conto, senza leggere opere come questa, di quanto i partigiani fossero poveri di tutto, dai mezzi di sussistenza alle armi, e quanta forza ideale e coraggio bisognasse dunque avere per partecipare – soprattutto per partecipare per più di qualche giorno o settimana – a quell’“esaltante epopea comunitaria”. E immagino che questo sentimento di “esaltazione” quegli uomini lo provarono dopo, nel ricordo, e non durante, quei lunghi mesi difficili, difficili per loro come per la popolazione non combattente. I partigiani che Fenoglio mette in campo, infatti, non sono super-eroi: hanno paura, portano scarpe pantaloni e maglioni che prendono la forma del loro corpo tanto sono sporchi, dormono nel fieno, mangiano quel che i contadini possono dar loro, sono divisi politicamente tra “rossi” e “azzurri”, hanno pregiudizi nei confronti dei partigiani meridionali salvo poi riconoscerne le qualità ecc. ecc. È a quel sentimento di “esaltazione” che noi Italiani dobbiamo se potemmo uscire dalla seconda guerra mondiale non come vinti ma come liberati: liberati dagli Alleati ma anche da noi stessi, cosi come peraltro i Francesi. Non ci fosse stata quella reazione, non avremmo potuto fare altro che chinare il capo ringraziando gli Alleati.

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