LO SPASIMO DI PALERMO (1998)

… di VINCENZO CONSOLO (1933-2012)j

Classificazione: 3 su 5.

PRESENTAZIONE. “Lo Spasimo di Palermo” non è nè un’opera introspettiva nè un romanzo di analisi storica o sociologica, e racconta un’esperienza di vita tutto sommato comune a tante persone – il rimorso, la delusione – , e proprio per questo, a lettura ultimata, mi sono chiesta se quest’opera non rispondesse all’urgenza di Consolo di esprimere una propria esperienza personale: quella di uno scrittore deluso, di un Italiano del Sud deluso, di una generazione delusa, di un padre deluso. Il fatto che Consolo non fosse sposato e non avesse avuto figli non esclude comunque che in quest’opera ci sia molto di autobiografico, soprattutto per quanto riguarda l’esperienza della scrittura e della sicilianità, tanto da far pensare ad un romanzo-confessione.

È in assoluto il romanzo più difficile che abbia mai letto, da leggere più volte, essendo la narrazione estremamente frammentaria, ellittica e oscillante fra presente e passato, lacunosi i riferimenti grammaticali (spesso per esempio ho dovuto leggere più volte per capire chi fosse il soggetto del verbo e non sempre l’ho individuato con certezza), intessuta la lingua di parole desuete o sconosciute quantomeno a me, frequenti le allusioni a fatti e cose non necessariamente note a chiunque. Un poema in prosa più che un romanzo o piuttosto un romanzo in una prosa evocativa, come dirò più avanti. Ora, la narrazione vera e propria è preceduta, oltre che da un esergo tratto dal “Prometeo incatenato” di Eschilo, dal senso univoco, quello sì, da una paginetta in prosa che più mallarmeana non si può, talmente scarsi sono gli elementi che (comunque a lettura fatta e non prima) possono esser messi in relazione col vissuto del protagonista o semplicemente compresi. D’altra parte, in una delle primissime pagine, il protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, che molti elementi del testo riconducono all’autore stesso, legge un maestro emblematico della scrittura ermetica: Mallarmé (che non è citato, però sono citate alcune sue opere e parole). Ora, non è tanto la difficoltà in sé che mi è dispiaciuta come lettrice, bensì l’impressione che Consolo ricerchi a bella posta la difficoltà espressiva e che la sua enigmaticità mimetizzi una certa povertà di contenuto: che insomma il ricco tessuto delle parole celi un corpo troppo magro per essere bello.

IL TITOLO. Come scrive Consolo a p. 94 dell’ediz. Oscar Mondadori, il titolo richiama la chiesa cinquecentesca di Santa Maria dello Spasimo, dalla storia travagliata, sita nella Kalsa di Palermo e così chiamata in quanto ospitava il quadro di Raffaello Sanzio “Andata al Calvario” conosciuto però col titolo “Lo Spasimo di Sicilia”, entrato in possesso della monarchia spagnola nel ‘600 e oggi esposto al Museo del Prado: lo spasimo, ossia il dolore della Vergine dinanzi a suo figlio Gesù caduto sotto il peso della croce.

I TEMI. “Lo Spasimo” di Consolo è effettivamente un grido di dolore giacchè racconta un triplice fallimento (il protagonista stesso parla ripetutamente di “scacco”): quello del siciliano Gioacchino Martinez come scrittore e come padre, anzi come rappresentante di una generazione che non ha saputo dar vita ad una società giusta (ma quale ha saputo farlo?); quello di suo figlio Mauro e della sua generazione, smarrìtasi negli inganni della lotta armata nella convinzione di poter rifondare quel mondo che i padri non avevano migliorato (vedi in particolare p. 74-75 dell’ed. Mondadori); quello, infine, della Sicilia, apoteosi al contrario del fallimento della società italiana, con chiari riferimenti all’uccisione, nel 1992, prima del giudice Falcone e poi del giudice Borsellino, e anzi il romanzo si chiude apocalitticamente con l’esplosione di v. D’Amelio e con l’invocazione a Dio di “calare” la propria mano: a punire? a salvare?

LA TRAMA. Si tratta di una narrazione alla terza persona dal punto di vista interno del protagonista, e i fatti a cui questi allude (non posso dire “narra”) appartengono a due tempi della sua vita: quello presente di lui adulto e quello di lui bambino ai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

Il romanzo si apre quando Martinez è a Parigi per salutare il figlio Mauro, rifugiato politico che si è ben inserito nell’intellighentsia parigina. Subito dopo lo ritroviamo nella sua casa di Milano ormai vuota poiché ha deciso di far ritorno a Palermo, dove ha trascorso l’infanzia, e poi durante il viaggio che lo riporta in Sicilia, nella casa dello zio ormai defunto che lo aveva accolto quando era rimasto orfano, e dove ha vissuto i primi anni del suo matrimonio con Lucia, sua compagna di giochi ormai morta. Senonchè quella casa così amata è stata stravolta dalla cementificazione ed è ora persino “profanata” dalla presenza di un uomo forse complice della strage di mafia che si sta preparando sotto la casa di fronte e che effettivamente accade, subito dopo che Martinez ha intuito cosa sta per accadere: troppo tardi per impedire che il peggio accada, sempre troppo tardi per evitare che il male si compia …

Ad arricchire questa materia così scarna, interviene la frequente irruzione nel presente di ricordi degli anni della Seconda guerra mondiale a Palermo, quando due eventi si erano impressi a caratteri di fuoco nella mente e nel cuore di Gioacchino bambino (Chino/Jachino) e della piccola Lucia, entrambi figli male amati: il primo evento è l’interruzione, a causa di un bombardamento, della proiezione di “Judex” (Giudice), il serial cinematografico del 1916 diretto da Louis Feuillade il cui protagonista si batte contro la criminalità così come, negli stessi anni, Batman e Zorro; l’altro evento è il ricordo del momento fatale in cui una parola sfuggita a lui e a Lucia – quanto consapevolmente? quanto inconsapevolmente? – aveva determinato la morte del padre per mano dei Tedeschi proprio quando compiva un atto di coraggio e di generosità. Questi elementi si insinuano ossessivamente nel presente di Gioacchino in forma di inestinguibile rimorso, insonnia, impressione costante di essere seguito, sentimento di inadeguatezza, paura di non essere amato, mentre Lucia, dal canto suo, è lentamente sprofondata nella follia prima di morire. Ecco perché sia lui sia Lucia possono ben dire “In my beginning is my end” (p. 5).

JUDEX – IL GIUDICE GIUSTIZIERE. Il nesso tra l’ossessione del ricordo del film “Judex” e l’attentato al giudice con cui si conclude il romanzo è esplicito. Riporto il passo seguente a p. 108-109:

Quando esce dalla macchina, s’infila nel portone, vedo allora sulle spalle del mio procuratore aggiunto il mantello nero di Judex, l’eroe del filhm spezzato della mia lontana infanzia, che ho congiunto, finito di vedere (…) alla Gaumont. (…) Un paradosso questo del mantello nero in cui si muta qui la toga di chi inquisisce e giudica usando la forza della legge (…) In questo Paese (…) dove lo stato è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants, da tenebrosi e onnipotenti Ferragus e Cagliostri, dove tutti ci impegniamo, governanti e cittadini, ad eludere le leggi, a delinquere, il giudice che applica le leggi ci appare come un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, rimuovere. O da uccidere.”

Rispetto a questo motivo del giudice che per fare giustizia deve farsi giustiziere, non riesco a vedere un legame con l’esperienza del parricidio che tormenta il protagonista e che oltretutto sembra riferirsi contemporaneamente (e – mi sembra – confusamente) sia alla responsabilità dell’uccisione del padre per mano dei nazisti sia alla metaforica uccisione dei padri letterari. Trascrivo qui di seguito alcuni stralci della lettera di Martinez al figlio ex-brigatista e quindi in certa misura judex di un pezzo di società italiana oltre che di lui padre:

So, Mauro, che non neghi me, ma tutti i padri, la mia generazione, quella che non ha fatto la guerra, ma il dopoguerra, che avrebbe dovuto ricostruire, dopo il disastro, questo Paese, formare una nuova società, una civile, giusta convivenza. Abbiamo fallito, prima di voi e come voi dopo, nel vostro temerario azzardo.” E subito dopo: “(…) me, inerte, murato nel mio impegno, nel folle temerario azzardo letterario. In quel modo volevo anch’io rinnegare i padri , e ho compiuto come te il parricidio. (…) Il mio primo, privato parricidio non è, al contrario del tuo, metaforico, ma forse tremendamente vero, reale. (…) rimaneva in me il bisogno della rivolta in altro ambito, nella scrittura. Il bisogno di trasferire sulla carta (…) il mio parricidio (…) per mezzo d’una lingua che fosse contraria ad ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli (…) involontari complici pensavo dei responsabili del disastro sociale. Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta, e ho pagato con la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna” (p. 105-106, cioè le ultimissime pagine)

Subito dopo descrive Palermo (e proprio mentre scrive questa lettera al figlio sta per accadere l’attentato con cui il romanzo finisce):

Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada per l’aeroporto! – È una furia bestiale, uno sterminio. Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma il principale loro obiettivo sono i giudici, giudici di nuova cultura, di salda etica e di totale impegno costretti a combattere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo loro stesso giudiziario, asservito al potere o nostalgico del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi, da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui hanno la loro prima linea, ma la cui guerra è contro lo Stato, gli Stati per il dominio dell’illegalità, il comando dei più immondi traffici” (p. 106-107)

STILE. Come detto e forse ridetto, l’espressione è spesso volutamente oscura per quanto riguarda i fatti concreti che si narrano, ma innegabilmente la lingua di Consolo è evocativa, direi prismatica, con riferimento ai molteplici riflessi del prisma, ricca di suggestioni prodotte soprattutto – mi sembra – mediante la figura retorica dell’accumulazione, talvolta in frasi scarne talvolta in frasi lunghe, e quindi alternando un ritmo più veloce ed uno più lento.

Un esempio a p. 85:

Pensa al ritorno da una Palermo argentina, da una Tauride, da una Brooklyn sospesa al ricordo.

spazio bianco

Era il miracolo dell’arte, la consolazione della ginestra, il fraterno affetto, la mano porta al naufrago, l’idea fresca, collettiva di volgere la storia, lenire l’esistenza” (p. 84). “L’urto d’ogni volta per la nuova via che finiva contro il muro alto, la ramaglia che straripava, il cantiere aperto nell’ultimo resto di quello ch’eera stato il suo giardino, per i palazzi grigi, l’ingresso sotto il portico, le colonne di cemento, la sua dimora in alto, i soffitti bassi, le feritoie delle finestre”.

Talora l’accumulazione serve a enfatizzare il sentimento dell’indignazione, come si vede nella descrizione di Palermo sopra riportata o in quella di Milano a p. 77:

Nessuna pena no, nessun rimpianto a lasciare dopo anni quell’approdo della fuga, quell’asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza. Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartotia mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità” (la violenza è forse più rimbaldiana che mallarmeana).

CONCLUSIONE. Un romanzo che si vuole innanzitutto “sorcellerie” dunque. Ecco infatti cosa scrive di Martinez a p. 88-89:

Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti (…)”

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