AUTO DA FÈ (1935)

di ELIAS CANETTI

Classificazione: 5 su 5.

E’ L’UNICO ROMANZO SCRITTO DA CANETTI, essendo questi fondamentalmente un pensatore, peraltro estremamente eclettico, che studiò molteplici ambiti – dalla chimica alle religioni agli insetti -, alla ricerca costante, se non ossessiva, di ciò che egli chiama “massa”, di cui tratta nella sua opera principale: Massa e potere (1960). Ora, nella postfazione contenuta nell’edizione Adelphi di Auto da fé nonché in uno degli ultimi capitoli del romanzo stesso (p. 447), per “massa” lui intende – mi è sembrato di capire – la parte primigenia della specie (animale) umana, che emerge per esempio nelle situazioni rivoluzionarie. E lui Canetti ne visse una a Vienna da giovane, nel 1927, che lo marcò in modo determinante, come sempre spiega nella postfazione: l’insurrezione operaia, repressa nel sangue, nel corso della quale venne incendiato il Palazzo di Giustizia e a cui lui partecipò: “la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva”. Ora, il romanzo di Canetti, di famiglia ebraica oltre che socialista, esce nel ‘35, cioè due anni dopo i roghi di libri (Bücherverbrennungen) del ‘33 da parte dei nazisti in Germania (e l’auto da fé del titolo è il rogo di libri nel quale il suo protagonista si lascia uccidere dalle fiamme) e tre anni prima dell’annessione dell’Austria al Reich (marzo ‘38). Insomma, prima di leggere il romanzo mi aspettavo che ci potesse essere qualche allusione al nazismo, e invece no.

QUAL È LA TRAMA DI QUESTO ROMANZO MAGMATICO? Essa consiste essenzialmente nel susseguirsi degli equivoci che portano il sinologo Peter Kien prima a sposarsi con una megera e infine, dopo una serie di situazioni “cocasses”, a dare fuoco a sé e ai suoi libri. Attenzione però! Questo finale non rappresenta la sconfitta della cultura o dello spirito in un mondo dominato dall’egoismo, perché fin dalle primissime pagine Canetti mostra bene come l’eruditissimo Peter Kien sia, rispetto alla realtà, del tutto incapace di interpretarla correttamente, e pure ingeneroso (vedi la scena iniziale col bambino). Ora Canetti dice nella postfazione di essere interessato alla follia, che – sempre se non ho capito male – è l’emersione della “massa”, cioè di quella parte dell’uomo che non si è liquefatta nella civilizzazione e che rende l’individuo unico, sottraendolo all’omologazione. Il suo progetto iniziale d’altra parte – scrive nel capitolo che segue il romanzo nell’edizione Adelphi- era di scrivere una “Commedia umana dei pazzi” (con riferimento alla Commedia umana di Balzac, che a sua volta si contrappone alla Divina Commedia di Dante). Ed effettivamente nel suo universo la follia trionfa perché tutti i personaggi sono dominati da un’idea fissa, la quale è la sola lente attraverso la quale essi leggono la realtà (spesso sembra già il mondo di certe farneticazioni social …), perché in quest’universo non c’è spazio per alcun sentimento di bontà – e anche questo tradisce la realtà, credo – e perché, infine, la misoginia di Canetti va al di là di qualunque ragionevolezza (vedi soprattutto il dialogo tra il protagonista e suo fratello Georg lo psichiatra). Un personaggio “positivo” nella misura in cui è “normale” (non farnetica e interpreta per lo più correttamente i fatti e le intenzioni degli altri) nel romanzo c’è, ed è appunto lo psichiatra Georg Kien, il fratello di Peter, che è affascinato dalla follia dei suoi pazienti e che nonostante tutta la sua sagacia non riesce a prevedere e prevenire la decisione finale del fratello.

QUAL È IL SENSO DEL ROMANZO? Tenuto conto di come vi è rappresentata l’umanità e tenuto conto del finale, non riesco a interpretarlo che come l’espressione di un tragico “cupio dissolvi”, di un diluvio universale che spazzi via l’umanità e forse la purifichi col fuoco. Neanche Balzac aveva dipinto l’umanità con tinte più fosche, giacché nella sua rappresentazione del mondo c’è ancora spazio per l’idealismo e persino per l’ingenuità. Per come Canetti rappresenta gli uomini – avidi brutali di assoluta malafede del tutto incapaci di senso morale, ma anche e soprattutto incapaci di capire le intenzioni degli altri, stupidi insomma – a me sembra che lo scrittore più vicino a lui sia il contemporaneo Céline, il cui Voyage au bout de la nuit è del 1932. Quanto allo stile, Canetti come Céline fa scomparire l’autore dietro il personaggio: il lettore non conosce tanto i fatti, quanto la percezione, regolarmente distorta come dicevo più sopra, che ne hanno i personaggi. Per quanto riguarda la lingua, però, Canetti è più trasgressivo di Céline (che “trascrive” i pensieri del suo Bardamu così come essi affiorano nella mente), più influenzato dal gusto surrealista Dada e dal teatro dell’assurdo, che destrutturano i personaggi e il linguaggio, non perseguendo più innanzitutto la verosimiglianza. Insomma i personaggi di Canetti sono grotteschi come quelli del suo amico pittore Grosz o come quelli di Ionesco e di Beckett.

Quanto al sentire del lettore, per quanto il romanzo sia eccessivo, ridondante, feroce, volutamente sgradevole, è molto difficile non riconoscere nei mostri di Canetti – Therese, il nano gobbo, il portinaio, lo studioso Kien ecc. – qualcosa di noi stessi, per cui questo romanzo, così come tutti i grandi classici, può essere altamente edificante per chiunque non abbia un pregiudizio positivo nei propri confronti.

Ci sono però delle cose che non mi spiego e su cui sarei grata che mi si desse qualche ragguaglio:

1. come mai Canetti non fa nessun cenno al nazismo? a meno di non voler considerare come denuncia indiretta della Germania nazista e in generale di molta Europa del Ventennio la sua rappresentazione così disperante dell’umanità (sorta di cupio dissolvi?), il che però è prenderla un po’ alla larga e poi comunque uno dei suoi mostri è il nano gobbo dal naso adunco … che è ebreo! ;

2. in mezzo a tanti pazzi come si spiega la presenza di Georg lo psichiatra? C’è dunque spazio per la “normalità ” nell’inferno di Canetti?

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